giovedì 27 ottobre 2011

Viaggi criminali: immigrazione clandestina

INTRO

Viaggi criminali racconta esperienze al limite della legalità. O oltre il limite. In modo consapevole o inconsapevole, questo non ha importanza.


IMMIGRAZIONE CLANDESTINA

Venezuela, San Cristobal, sudovest del paese. Una simpatica cittadina colorata di banchi di frutta del mercato e da file di autobus che a suono di reggae ton si inerpicano sui fianchi delle colline. 
Ci si arriva percorrendo una delle peggiori strade del Sudamerica, un lungo sterrato di tre ore e mezza martoriato dalle buche e dalle piogge insistenti e improvvise. Un passaggio obbligato per chi sceglie di sconfinare in Colombia passando per l’entroterra.

La frontiera è poco più in la, un’ora e mezza di viaggio: si sale, si scende, si salutano le truppe in esercitazione, si rimane bloccati nel traffico di San Antonio del Tachira e poi si entra a Cucuta, primo avamposto colombiano.
Comodamente seduti su un chiassoso autobus d’altri tempi, con i sedili imbottiti stanchi e sconfitti, con la sua varia umanità di viaggiatori e commercianti, passanti e parenti, signori e popolani. Una sorta di cartolina d’altri tempi che stona con i moderni e attrezzati bus per le lunghe distanze.
Il confine quasi non esiste: è solo un attimo, un momento, un’immagine di bandiere gialle blu e rosse quasi identiche, sorelle di un passato lontano.

Io ancora non lo so, ma sono ufficialmente un immigrato clandestino. Un po’ disinformato, un po’ ingenuo. La continuità territoriale ovviamente per i turisti non vale. Dovrei andare il giorno stesso in un ufficio preposto a denunciare la mia presenza sul territorio e far timbrare il passaporto. Ma, ovviamente, visto che non ne sono a conoscenza non lo faccio. E via, in giro per la Colombia.

Qualche giorno più tardi, il momento della verità. Ponte di Rumichaca, frontiera internazionale con l’Ecuador. Questa volta i controlli ci sono. E piuttosto seri. L’ufficiale è inflessibile: non hai il timbro, non passi. Duecento dollari di multa, da pagare in città, in banca. E devi anche ringraziare di cavartela a buon mercato.

D’accordo, rifletto. Un sacco di soldi. E poi è domenica. Mattina, le sette o giù di li, vista la nottata passata in autobus. Non faccio in tempo a raccogliere i pensieri che mi si avvicina un gruppo di persone con un’improvvisa voglia di aiutarmi: posso pagare a loro centocinquanta dollari e avere il timbro subito, anche senza rifare la fila allo sportello. Ce l’hanno li, in tasca. Ed è quello originale, non mi devo preoccupare, avuto per strani contatti con l’ufficio immigrazione. O trovato nel cestino della spazzatura dello stesso ufficio, questo non mi è chiaro.

Bene, un passo avanti. Io comunque non ho contanti, e il mio bancomat in Colombia non funziona. Non c’è problema: ti portiamo in macchina in Ecuador, di nascosto, ritiri un po’ di dollari al bancomat della cittadina di Tulcan, e torniamo. A ripensarci mi sembra una pessima idea. Ma sul momento, era una prospettiva interessante.
Dettaglio, il bancomat non funziona neanche in Ecuador: mi sono appena fatto dei nuovi nemici. Torno al posto di blocco colombiano, scambio quattro chiacchere con un’altra guardia. Effettivamente ci sarebbe un modo per risolvere la questione: dare cento dollari a lui, timbro sul passaporto e via come se nulla fosse. La storia non cambia, se non altro stiamo ridimensionando il prezzo.

Da qui non ci si muove. Decido che dopo l’immigrazione, farò anche emigrazione clandestina. Mi presento in Ecuador come se nulla fosse. Nuovo sportello, nuova guardia, nuovo timbro da ottenere. La questione diventa molto più diretta: non hai il timbro di uscita dalla Colombia, devi tornare indietro e regolare i conti. O darmi cento dollari.
Ho fatto un certo tipo d’abitudine a questo genere di trattativa. E, comunque, non ho contanti.

La guardia riflette per un po’. Poi, lampo di genio. Mi manda al duty free. Compro una bottiglia di whisky, pago con la carta. Non mi faccio fare un pacchetto regalo, mi sembra troppo spudorato. Torno nell’ufficio e allungo il sacchetto all’ufficiale. Sguardo d’approvazione, sorriso, timbro. La frontiera si spalanca, posso andare, libero, comparso misteriosamente al confine dell’Ecuador senza mai essere entrato o uscito dalla Colombia.

L’ho sempre detto che non c’è nulla che non possa essere sistemato con un paio di bicchieri. O con una bella bottiglia di whisky, in questo caso.

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